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Approfondimenti, Mediazione Transculturale

Il ruolo del mediatore culturale nell’ambito del diritto d’asilo

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Il mediatore culturale nei servizi per richiedenti/titolari di protezione internazionale lavora quotidianamente con il dolore delle persone. Questa premessa è d’obbligo se si vuol cercare di comprendere quali sono le difficoltà del lavoro di mediazione in questo settore e se si vogliono cercare degli strumenti che aiutino il lavoro del mediatore.

Introduzione al lavoro di mediatore
Se chiedessimo ad una persona non esperta, in che cosa consiste il lavoro del mediatore culturale, probabilmente ci risponderebbe che il mediatore è una persona che deve aiutare uno straniero ad integrarsi nel paese di approdo.
Lo stereotipo più comune, infatti, vuole che sia lo straniero a fare tutto lo sforzo, ovvero a doversi adattare del tutto alla società e alla cultura nella quale approda.
Questo pregiudizio è però destinato a finire in un fallimento. Per aiutare uno straniero a fare delle cose, documenti, ricerca casa o lavoro, basta qualcuno che traduca.
Cosa fa, allora, davvero il mediatore culturale? Intanto chiamiamolo in modo più corretto, mediatore interculturale, e poi, guardando alla pratica del lavoro e agli obiettivi che si pone, possiamo dire che il mediatore interculturale si pone come obiettivo quello di avvicinare due culture, quella di provenienza dello straniero e quella del paese di approdo. Il mediatore interculturale ha il difficile compito di far capire al nuovo arrivato come stanno le cose “qui da noi”, e ai cittadini del paese di approdo quali sono le caratteristiche principali della cultura dello straniero.
Questo percorso di reciproco avvicinamento è molto complesso da gestire, carico di insidie, e soprattutto richiede un grande sforzo da parte di tutti: mediatore, straniero, cittadino ospitante.

Il mediatore interculturale che lavora con richiedenti asilo e rifugiati
Fare il mediatore interculturale nell’ambito del diritto d’asilo significa lavorare quotidianamente con il dolore delle persone. Questa premessa è d’obbligo se si vuol cercare di comprendere quali sono le difficoltà del lavoro di mediazione in questo settore e se si vogliono cercare degli strumenti che aiutino il lavoro del mediatore.
Il dolore che richiedenti asilo e rifugiati portano, è fatto di tante cose: dolore per le vicende personali, per quello che è accaduto all’individuo; dolore per quanto è successo e sta ancora succedendo ai propri cari; dolore per la propria terra, martoriata dalla guerra civile; dolore per il genere umano, abitato da individui in grado di sporcarsi le mani con violenze inaudite e del tutto prive di senso; il dolore delle donne per essere usate e abusate.
Tutti questi tipi di dolore, e anche molti altri, fanno parte della vita quotidiana di richiedenti asilo e rifugiati, anche se in misure differenti a seconda dei casi.
Dunque, il primo elemento che emerge del lavoro del mediatore interculturale in questo ambito, è la capacità che egli deve sviluppare di avere a che fare con il dolore, saperlo ascoltare, accoglierlo, “digerirlo” e restituirlo depurato al rifugiato. Il mediatore, ma da adesso in poi parlo di mediatrice – in quanto la mia esperienza vede quasi del tutto donne impegnate i questa attività – deve sapere che le verrà chiesto non solo di mediare tra le due culture, tra i sistemi valoriali, tra i gusti e le aspettative dei rifugiati e del paese ospitante, ma le verrà chiesto anche di fare da mamma, da sorella, da psicologa.
Non ci stiamo domandando qui se queste richieste siano lecite, se è giusto o sbagliato che ad una mediatrice vengano chieste queste cose, ma stiamo parlando di esperienze concrete di lavoro, che hanno evidenziato queste richieste. Dunque, la mediatrice dovrà essere in grado di capire come gestirle, quando assecondarle, quando invece sottrarsi ad esse.
C’è un altro aspetto che riguarda nello specifico il lavoro di intermediazione con richiedenti asilo e rifugiati, e che è specifico dell’Italia. Lo Stato italiano non possiede ancora una legge organica in materia d’asilo. Nonostante abbia ratificato la Convenzione di Ginevra, che costituisce il documento principale di riferimento in materia di asilo, e nonostante abbia recepito le ultime direttive europee in materia, in Italia il diritto d’asilo è ancora molto lontano dall’essere un diritto realmente esigibile dai rifugiati. Questo perché anche se la legge italiana dice che lo Stato deve fare certe cose per i rifugiati e garantire loro certi servizi e sostegni, questo non avviene per la mancanza di risorse economiche stanziate. E anche se la legge italiana dice che il rifugiato è del tutto comparato ad un cittadino italiano, ad esempio per quanto riguarda il diritto alla residenza, all’assistenza sanitaria, all’iscrizione alle liste di collocamento, ecc., queste cose non avvengono in modo lineare, ma spesso il loro esito dipende dall’interessamento della mediatrice culturale e dell’operatore sociale che segue il rifugiato, e solo, ovviamente, per i rifugiati che sono riusciti a trovare un posto in qualche progetto si sostegno. Quindi, la mediatrice si trova continuamente – almeno questa è l’esperienza piemontese – a dover capire come funziona una cosa che potrebbe essere lineare e semplice ma che per i rifugiati diventa complicata e spesso difficile da ottenere. E poi deve riuscire a spiegare al rifugiato tutta questa complessità, e tutte le difficoltà che egli dovrà superare, nonostante la stessa legge italiana dica che in teoria lui non dovrebbe essere discriminato.

L’esperienza piemontese
In Piemonte si sta concretizzando una rete di enti locali, privato sociale e associazioni che sta lavorando per i rifugiati presenti sul territorio. La rete ha preso avvio a Torino, a seguito delle occupazioni di stabili da parte di rifugiati che dal 2007 in avanti hanno interessato la città.
Questa rete, che proprio in questi mesi sta concretizzando i legami con molte realtà locali della regione, si pone l’obiettivo di creare dei progetti di inserimento sociale, lavorativo e abitativo per quei rifugiati che non sono riusciti a trovare un posto all’interno del sistema di accoglienza nazionale. E una parte consistente del progetto si rivolge ai cosiddetti “vulnerabili”, ovvero a coloro che sono portatori di particolari caratteristiche che li rendono meno abili nel perseguire gli obiettivi di inserimento.
Il lavoro della rete ha preso avvio in situazioni emergenziali, come detto a partire dalle occupazioni di stabili privati e pubblici nella città di Torino, e questo ha comportato un vuoto di fiducia tra i rifugiati e tutti coloro che a vario titolo si avvicinavano ad essi per proporre delle soluzioni. Questo vuoto di fiducia, reso tale dal vuoto istituzionale nel quale questi rifugiati si sono ritrovati, ha comportato molte difficoltà nell’avvicinarsi a queste persone e nel proporre loro delle soluzioni alternative all’occupazione, che prima o poi sarebbe stata interrotta dalle forze dell’ordine.
Il primo lavoro delle mediatrici, quindi, è stato quello di riconquistare, poco alla volta e passo dopo passo, la fiducia di queste persone, per le quali le stesse mediatrici erano delle estranee. Questo lavoro non è ancora terminato oggi, perché si tratta di un percorso molto difficile, e reso ancora più difficile da un aspetto che vorrei sottolineare subito.
Nel lavoro degli enti, del privato sociale e delle associazioni, c’è molta buona volontà, ci sono capacità professionali, c’è passione, ma questi stessi enti si devono scontrare con risorse molto scarse e una burocrazia assillante. Ciò comporta che in diversi casi il progetto ha promesso delle cose ai rifugiati, e poi è dovuto tornare sui suoi passi, dovendo spiegare ai rifugiati come mai la promessa fatta non sarebbe stata mantenuta, e quali alternative si aprivano. Questa tensione tra promesse progettuali e realtà dei fatti, che spesso devono essere modellati in base alle difficoltà, è difficile da capire per molti rifugiati, i quali perdono fiducia e reagiscono in diversi modi, ad esempio abbandonando il progetto, o lasciandosi andare e quindi diventando passivi e privi di voglia di fare, oppure protestando e cercando di ottenere in tutti i modi ciò che era stato loro promesso.
La mediatrice interculturale si trova, dunque, in una situazione che può essere definita “tra l’incudine e il martello”. La mediatrice, infatti, dai rifugiati viene vista come una persona che dovrebbe essere sempre dalla loro parte, fare i loro interessi, combattere per le loro cause, e se non lo fa, viene vista come una traditrice, come una persona che si è scordata le sue origini. Questo provoca grandi sofferenze nelle mediatrici, che invece faticano quotidianamente per spiegare ai rifugiati come stanno andando le cose. D’altra parte, le mediatrici si trovano a dover interagire con operatori sociali che non sempre sono disposti ad accettarle come pari grado, persone con le quali confrontarsi sui casi concreti per definire insieme degli obiettivi raggiungibili, ma con operatori che le vedono come “traduttrici”.
In questa situazione, conquistare la fiducia dei rifugiati non è semplice, e non si tratta mai di una fiducia del tutto conquistata, ma sempre rimessa in discussione, ogni volta che qualcosa non va come previsto, ogni volta che il rifugiato ritiene di essere stato danneggiato o ingannato, ogni volta che l’operatore sociale che segue il caso prende delle decisioni senza consultare la mediatrice.
Nonostante le difficoltà dell’emergenza, le mediatrici sono riuscite a convincere la grande maggioranza dei rifugiati presenti nelle occupazioni, e questo ha consentito di svolgere le azioni di trasferimento dall’ex clinica San Paolo di Corso Peschiera alla caserma di via Asti e al campo della Croce Rossa di Settimo Torinese, senza incidenti (ovviamente anche grazie al lavoro di volontari e istituzioni).
Dopo i trasferimenti, il lavoro delle mediatrici ha consentito di spiegare ai rifugiati le difficoltà che ci sarebbero state nell’inserimento socio-abitativo di tutte quelle persone e hanno permesso di lavorare in modo sereno e rapido, per quanto possibile.
Oggi, a distanza di circa due anni dalle occupazioni e dall’avvio dei progetti per i rifugiati presenti in esse, possiamo dire di essere sulla giusta strada. Le persone inserite in progetti concreti, e che stanno dando ottimi risultati, sono più di duecento, e il lavoro della rete, degli operatori sociali, dei volontari e con loro delle mediatrici, sta creando un modello di intervento che potrebbe essere esportato anche in altre realtà.
Ora le mediatrici si trovano nella fase in cui devono guidare due processi diversi: da una parte, devono aiutare i rifugiati che hanno concluso il loro percorso nel progetto a rendersi più solidi ancora, e a non fallire nel processo di raggiungimento dell’autonomia; dall’altra, devono continuare a sostenere le persone che invece, per diversi motivi, continueranno a rimanere nei progetti che la rete sta creando, perché non ancora in grado di camminare con le proprie gambe.
L’unico aspetto che voglio sottolineare qui, visto che si parla di mediazione interculturale, del modello di lavoro che stiamo portando avanti in Piemonte, riguarda il fatto che le mediatrici stanno raggiungendo il pieno riconoscimento all’interno della rete degli operatori, un riconoscimento che le porta ad essere protagoniste di ogni processo decisionale, sia sul progetto sia sui singoli casi. Rimangono ancora diversi elementi da sistemare, come il riconoscimento economico, la posizione contrattuale, le coperture assicurative, i servizi ai quali la mediatrice dovrebbe poter accedere per svolgere ancora meglio il proprio lavoro. Ma questo fa parte del percorso di ridefinizione che stiamo portando avanti, e ci pare che la strada sia davvero quella giusta.

Due proposte
Il lavoro della mediatrice interculturali si basa certamente sull’esperienza concreta che ciascuna accumula nel tempo. Ma l’esperienza non deve essere l’unico elemento al quale lasciare il peso della gestione di queste difficili relazioni, sia con i rifugiati sia con gli operatori sociali. Occorre dare supporto alle mediatrici, e questo può avvenire con due strumenti. Il primo riguarda percorsi formativi nel campo della relazione interpersonale e del lavoro con i rifugiati, perché si tratta di un ambito specifico al quale occorre avvicinarsi con delle competenze specifiche. Il secondo riguarda un supporto psico-sociale, che si concretizzi da una parte nel seguire il lavoro sul campo delle mediatrici e, dall’altra, nella gestione di momenti comuni di confronto e di discussione, così che le mediatrici possano confrontarsi sul lavoro svolto, scambiarsi idee e opinioni e arrivare a stabilire buone prassi, nell’ottica di una continua ridefinizione dei micro-obiettivi che ci si pone con il beneficiario del progetto.

Fonte: Università degli Studi di Torino

Informazioni su Italiena

Mediatrice transculturale di origine camerunese, vive a Roma dal 1992. Studi universitari in Sociologia, è anche consulente e formatrice su tematiche legate all'Intercultura.

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