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Approfondimenti, Mediazione Transculturale

Mediazione culturale: Alcune riflessioni di un’addetta al lavoro

Una condivisione derivante da alcuni aspetti che hanno segnato la mia esperienza di mediatrice culturale, per contribuire a far conoscere meglio questa figura professionale.

Il ruolo del mediatore culturale è complesso perché non si tratta soltanto di tradurre e interpretare; ci sono molti altri aspetti in gioco. Diversamente da quanto avviene con gli interpreti, che hanno delle competenze socialmente riconosciute, lo status dei mediatori culturali ha un’immagine piuttosto limitata in termine di identità professionale. I nostri interventi riguardano per lo più migranti in condizioni socioeconomiche disagiate, e richiedenti protezione internazionale.
Oltre alle buone conoscenze linguistiche, a una capacità di ascolto partecipato, di analisi simultanea e di memorizzazione, il mediatore culturale deve avere delle competenze supplementari: la conoscenza delle diversità culturali, la capacità di comunicazione, la finezza della percezione, l’intuito per intervenire in modo adeguato ed al momento giusto. Nel nostro lavoro dobbiamo valutare continuamente quando possiamo parlare, quando dobbiamo tacere, come avvinarci a persone provenienti da ambienti diversi, e come chiedere o fornire un’informazione.
Il nostro avvicinamento alla lingua risulta di fondamentale importanza, non tanto al significato pragmatico quanto al significato semantico delle parole. Un termine non ha necessariamente lo stesso valore sociale da un paese al’altro, occorre quindi padroneggiare i diversi aspetti della lingua: significato, contesto, comunicazione, retroscena culturale. È soltanto quando riusciamo a familiarizzare con i due mondi (qui e là) che possiamo diventare un possibile mezzo di comunicazione per entrambi.

Eppure l’intervento di mediazione culturale è delicato, talvolta rischioso. Bisogna essere prudenti, ed evitare di generalizzare gli aspetti culturali. Dobbiamo sempre aver presenti, nella mente, le differenze che esistono nelle varie regioni di un determinato paese, e prendere in considerazione l’aspetto educativo, religioso, la classe sociale e le caratteristiche personali dell’utente che hanno un peso considerevole.
Seppur consapevoli dei possibili malintesi, cerchiamo in qualche modo di aumentare le occasioni di comprensione; le tensioni o frustrazioni possono essere trasformate in opportunità per creare il cambiamento e per instaurare la fiducia. A volte, anche se risulta doloroso, dobbiamo proiettarci nel nostro passato di migranti per capire l’esperienza dell’altro.

Una certa complicità con gli utenti è talvolta necessaria. Nell’ambito sanitario in cui opero ad esempio, alcuni pazienti nel timore di sembrare “primitivi” non ammettono il ricorso a certi valori culturali come per esempio i guaritori del corpo e dell’anima. E quand’anche lo fanno, il mediatore deve essere in grado di trovare degli equivalenti comparabili tra la cultura italiana e quella di origine del migrante, per creare una reciproca comprensione e facilitare la comunicazione.
Molti operatori, sanitari, educativi e sociali, non sono propensi a chiedere l’intervento del mediatore culturale per il timore di non riuscire ad instaurare un rapporto privilegiato con l’utente in presenza di un terzo. Le resistenze sono riconducibili alla paura che alcune parti del messaggio non vengano trasmesse per omissione o per trasformazione del messaggio. Può capitare in effetti a tutti di non afferrare il senso di un discorso, ma un mediatore adeguatamente formato lo esplicita sempre alle parti, anche perché paradossalmente questo facilita l’instaurarsi del rapporto di fiducia con le parti.

La gestione delle emozioni è una delle difficoltà maggiori che incontriamo. A volte nella traduzione di storie estremamente dolorose, nel pronunciare parole che suscitano forti emozioni, abbiamo la sensazione di essere un “filtro” attraverso il quale queste parole e queste emozioni insopportabili passano: siamo nello stesso tempo il “ponte” che permette il passaggio delle informazioni e lo “schermo” che riflette l’aspetto non-verbale dei propositi: il tono della voce, la velocità, la mimica, la gestualità sono fondamentali. In alcune circostanze le parole sono sottintese ma non chiaramente pronunciate: come per esempio nel caso di persone vittime di tortura che si vergognano di dire ciò che hanno subito, specie quando la violenza subita tocca gli aspetti sessuali.
Spesso ci capita anche di intervenire con persone che hanno una dialettica confusa e/o un flusso caotico.

Capire le aspettative reali degli intervenanti. Di solito è opportuno creare un breve momento di scambio preliminare, con l’operatore e laddove possibile con l’utente, anche per capire il contesto e il contenuto dell’intervento e per chiarire le attese reciproche. Grazie a questo processo possiamo chiarire il nostro ruolo professionale ed esplicitare le nostre competenze, specie quando le parti non ci conoscono. Questo approccio facilita anche l’instaurarsi del rapporto di fiducia tra professionisti.
A volte ci troviamo ad intervenire in diversi servizi a favore della stessa persona, e conseguentemente può capitare che siamo gli unici interlocutori al corrente di elementi confidenziali. In questi casi l’imperativo è rispettare strettamente la confidenzialità rimanendo allo stesso tempo trasparenti: possiamo informare l’operatore sul fatto che abbiamo già mediato per l’utente, senza fornire altre informazioni.

E voi, siete mediatori culturali o avete mai lavorato con mediatori? Qual’è la vostra esperienza?

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Informazioni su Italiena

Mediatrice transculturale di origine camerunese, vive a Roma dal 1992. Studi universitari in Sociologia, è anche consulente e formatrice su tematiche legate all'Intercultura.

Discussione

4 pensieri su “Mediazione culturale: Alcune riflessioni di un’addetta al lavoro

  1. ciao, molto bello e interessante il tuo articolo…io mi sto orientando verso questa professione che mi sembra ricca e che,superati determinati scogli,può dare molte soddisfazioni. vorrei chiederti qual è il percorso che suggeriresti a chi si avvia verso questa strada? io sto pensando ad un master, più precisamente a quello di Padova “Studi interculturali”. Pensi ne valga la pena o ci sono altre strade?Io ho una triennale in lingue e negli annunci dedicati alla ricerca di mediatori culturali tra i requisiti c’è sempre una formazione specifica nel settore e un’esperienza. Insomma grazie per qualsiasi consiglio ti possa darmi!

    Pubblicato da dalila | 31 agosto 2012, 15:46
    • Ti ringrazio Dalila,
      quella della mediazione culturale è davvero una professione ricca (umanamente) che dà molte soddisfazioni. Il master è una buon’idea. Cerca comunque di fare esperienze pratiche durante la formazione, anche con attività di volontariato, perché in effetti nella maggior parte dei bandi pubblici richiedono esperienza. In bocca al lupo!

      Pubblicato da Italiena | 1 settembre 2012, 01:58
    • qui a torino per fare il mediatore bisogna avere un diploma regionale sulla mediazione interculturale. bisogna anche essere immigrati di origine straniera.

      Pubblicato da abdelouahed | 1 ottobre 2012, 10:15
  2. Dalila,mi ha colpito tanto tutto quello che hai scritto riguarda alla professione di mediatore interculturale.
    Io come straniera,(ma già da diversi anni in Italia)vorrei aiutare gli altri emigrati a integrarsi,nel mio paese sono laureata in medicina e penso di poter essere utile a fare volontariato, non ho l’esperienza,ma mi rispecchio molto in questo ruolo.

    Pubblicato da lucia | 24 gennaio 2013, 15:13

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